[…attendo solo che mi contatti Sorrentino per la serie TV su questa vicenda così avvincente, quindi avvincenda, che non conosce una fine! A grande richiesta (che poi è mica vero: mi avranno scritto un paio di persone per chiedermi come va avanti la storia) ecco la IV parte! Se ti sei perso le puntate precedenti: I parte qui, II parte qui, III parte qui ]
Il risveglio al mattino è contraddistinto da una bellissima giornata di sole.
Ormai ai letti comodi ci siamo disabituati o, meglio, ci siamo abituati a dormire dove capita: di base il trattamento è un asse di legno sul quale è appoggiato un materasso più o meno morbido a seconda del posto. Ma quando si è stanchi si dorme ovunque.
La particolarità di questi letti è invece il cuscino: un sacco di patate. Non nel senso che dentro ci siano veramente delle patate, almeno credo, ma la consistenza e la forma sono la stessa cosa.
Il diluvio della sera precedente è finito prima di andare a letto e, come ormai consuetudine, siamo in branda verso le 22, anche perché al mattino ci svegliamo di solito abbastanza presto.
La tensione della sera prima pare mitigata ma ormai siamo talmente abituati ai colpi di scena che partiamo, pur senza dircelo, convinti che qualcos’altro dovrà pur succedere.
Il programma: ci faremo 40 minuti di cammino costeggiando il fiume, che, a vedere da dove siamo alla partenza pare in effetti più tranquillo rispetto alla sera precedente, fino a raggiungere un ponte sospeso sul quale, a piedi, possiamo arrivare all’altra sponda.
Poi ancora un po’ di strada a piedi per raggiungere il luogo del misfatto, ovvero l’unico punto in cui le jeep, fiume permettendo, possono attraversare.
Ci incamminiamo. Lungo il percorso notiamo, tra i boschetti che passiamo, quel che ha lasciato la bufera della sera: foglie ovunque, rami spezzati e addirittura un albero che si è abbattuto su quella che non si capisce se essere una casetta per gli attrezzi o un pollaio. Fortunatamente la casa in cui abitano le persone si è salvata. Per pochi centimetri ma è salva.
Arriviamo al ponte sospeso, ovviamente ben oltre i 40 minuti preventivati, e passiamo sull’altra sponda. Il ponte è parecchio alto e si nota una manutenzione molto pane e mortadella: per stabilizzarlo, visti gli evidenti segni di usura, l’ingegnere di turno ha pensato di infilare qua e là, probabilmente col metodo conosciuto con l’espressione “a cazzo”, dei lunghi pali di bambù che spuntano di almeno un paio di metri sotto ai nostri piedi da entrambi i lati. Ne ha piazzati almeno una ventina secondo un criterio che Renzo Piano spostati.
Ma evidentemente è efficace.
Ad ogni modo siamo di là. Fa piuttosto caldo e la camminata, con tanto di zaino in spalla, ci fa sudare alla spina.
Dopo un’altra ventina di minuti ci ritroviamo nel punto in cui sapremo cosa ci succederà.
Riepilogo: se le jeep, che sono attese da lì a poco, vedranno che ci sono le condizioni per attraversare, non faremo altro che salirci a bordo. Se il fiume e quel surrogato di strada invece non permetteranno il guado, dovremo attendere altre 2 jeep che arriveranno direttamente da Phaplu, visto che si trova sulla sponda giusta.
Incrociamo le dita e preghiamo ognuno il suo Dio perché la seconda soluzione non debba avverarsi: da previsioni locali, la tempistica per raggiungere la nostra prossima “Isola che c’è ma non si vede” è tradotta in 4 ore di jeep. Mi prende un filino di angoscia a pensare che, nel caso, ci toccherà restare lì seduti su una qualche pietra per un numero indefinito di ore in attesa dell’eventuale arrivo.
Dopo un’oretta circa vediamo spuntare lungo il sentiero che scende verso il fiume la prima delle nostre jeep. Evvai!
Quando arriva al momento della verità si ferma qualche istante. L’autista guarda bene dal finestrino e ci fa un pollicione su.
Il fiume è in effetti più tranquillo ma io personalmente, a guardare com’è messa quella non strada, a bordo di una jeep non lo attraverserei neanche per Cristiano Ronaldo alla Spal.
Tuttavia il mondo è bello anche perché si scoprono usanze locali e si scopre da quante paure ci si fa talvolta travolgere nella vita.
La jeep passa tranquillamente: ballonzola un po’, in certi momenti sembra possa imbarcare acqua da un momento all’altro, ma dopo pochi secondi è sulla nostra sponda.
Arriva anche la seconda jeep e, visto l’andazzo, manco si ferma a contemplare il guado. Giusto un rallentamento per prendere bene la mira e in un attimo arriva da noi anche questa.
Parte così il nostro comodissimo viaggio in direzione Phaplu. Occupiamo ogni posto della jeep ma, nonostante ciò, devo ammettere che non stiamo nemmeno così scomodi.
Oddio, la comodità è un’altra cosa, ma penso al cuscino fatto col sacco di patate e mi convinco così di essere su una bella poltrona.
La strada non è migliorata in niente rispetto al tratto che abbiamo fatto ieri. Ci sono talmente tante buche che se le inizi a contare ti avvicini alla definizione di “infinito”.
Un diamante è per sempre, le buche in quelle strade anche.
Il paesaggio è spettacolare e, a quanto pare, dobbiamo arrivare nella vallata che si trova dall’altro lato della montagna, visto che continuiamo a salire (anche perché l’unica strada è quella).
Incredibilmente ogni tanto riesco ad appisolarmi e come me anche altri miei compagni di viaggio.
Se la jeep continua a ballare così, sono convinto che le vertebre del mio collo evaporeranno ed inizierò a muovere il collo come i pupazzetti che i tamarri si mettono sul cruscotto.
Dopo circa 3 ore di rimbalzi c’è la pausa pranzo. Ci fermiamo in questo posto che è un po’ tutto: ristorante, affitta camere, super mercato, forse anche farmacia.
Penso a chi abita in quelle zone. Penso alla differenza incredibile che abbiamo, probabilmente, del concetto di vita, di come occupare il tempo, di cosa fare.
Penso anche che tutte ste seghe mentali me le faccio solo io perché, a parte la solita grande gentilezza ed ospitalità come in ogni luogo del Nepal, dopo averci servito da mangiare tornano tutti a farsi beatamente i cazzi loro, mentre io cerco di osservare ciò che fanno e cerco di capire, o immaginare, di cosa stiano parlando.
Magari del Grande Fratello Nepalese (che se ne scopro l’esistenza mi faccio suora), magari del loro governo. O magari del bellissimo panorama che vedono ogni giorno o di cosa faranno questa sera. Chissà.
Mangio una delle cose più piccanti di tutto il soggiorno. Il naso mi inizia a colare all’istante e ho la bocca talmente anestetizzata che potrei farmi togliere un dente con una pinza.
Quindi mangio per riempirmi la panza ma ad un certo punto i gusti non esistono più.
Ripartiamo dopo circa un’oretta e la strada, manco a dirlo, è sempre affetta da acne.
Il clima, inter nos, ora è disteso: siamo fiduciosi che Phaplu esista un po’ di più di Kharikhola (ma un po’ meno del Molise) e che quindi sarà questione di minuti.
I minuti in questione saranno quasi 120 e, attenzione attenzione, per una volta godo come un riccio nel vedere che finalmente c’è un po’ di asfalto sotto le nostre ruote.
Sono passate quasi 6 ore dalla partenza e ormai abbiamo assunto tutti delle movenze da cavallo al galoppo.
Eccola là! C’è Phaplu! È finita!!!
Come scusa? Ah non è finita? In che senso? Ma ancora???
Ebbene sì, ancora.
[continuerà…e, SPOILER, sarà l’ultima puntata!]
[forse]
Un pensiero riguardo “Non è stato solo Everest Base Camp – IV parte”